Quando eravamo piccoli, l’anno veniva scandito da due momenti: le vacanze di Natale e le vacanze estive. Crescendo pensavo che le cose sarebbero cambiate, che avrei avuto altre scadenze e altri ritmi, invece come suggeriva una grande pensatrice del ‘900 “cambia il tempo ma noi no”. Anzi, tutto sommato neanche il tempo.
Prima della pausa di Ferragosto, in ufficio si respira quella duplice aria di apocalisse e fancazzismo. Da una parte, tutte le rotture diluite nei mesi si presentano alla porta come Equitalia e vengono fatti discorsi da fine dell’anno però ad agosto (sapete no? Abbiamo lavorato bene, gli obiettivi raggiunti, quelli da raggiungere, a settembre dovremo sforzarci di più, buona fine e buon inizio). Dall’altra, la fatica dei mesi passati si presenta sottoforma di voglia di morire mista a capacità di attenzione di un cane quando vede una pallina.
Ed è in questa atmosfera che io e Alessio (diamo un nome all’uomo che rende di nuovo felici i miei giorni) . ci concediamo un weekend nelle Marche. L’occasione è rappresentata da una manifestazione che una tenuta vinicola di mia conoscenza organizza da qualche anno e che ho voglia di vedere dal vivo. Decidiamo di staccare solo per un paio di giorni, perché il viaggio più corposo sarà a novembre e nel frattempo la parola d’ordine è risparmiare. Però passare tutta la settimana di ferie a casa, per quanto ricca di cose da fare, ci sembrava altrettanto brutto. Ed ecco venirci incontro le Marche, prima fermata: Macerata.
MACERATA – Optiamo per la città marchigiana con la scusa, per Alessio, di rivedere degli amici, per me di conoscerli per la prima volta. Sulla spinosa questione del debutto in società di una nuova coppia, parleremo un’altra volta e sempre se mi ricordo, perché ho quel problema con l’attenzione di cui non so se vi ho già parlato. Appunto.
La prima cosa è prendere possesso della nostra camera all’Hotel Lauri, una struttura vicino al centro storico con un delizioso cortile interno e le receptionist tra le più gentili che io abbia avuto la fortuna di incontrare. Unica pecca: si trova in un vicolo dove è possibile fermarsi solo per scaricare le valigie e anche velocemente prima che il proprietario della macchina dietro vi meni. A quel punto usciamo alla scoperta di Macerata e del suo cibo visto che non abbiamo ancora pranzato.
La prima cosa che penso è che abbiano chiuso la città per ferie e noi non lo sapevamo. In giro solo noi e qualche incauto vecchietto che si è perso la puntata di Studio Aperto in cui invitano a non uscire nelle ore più calde. Negozi con le saracinesche minacciosamente abbassate e poi l’oasi nel deserto, il Digusto, un locale arredato apposta per le fotografie di food, che ci sfama con uno dei simboli marchigiani: il ciauscolo. Un panino dopo facciamo una passeggiata per i vicoli di Macerata fino ad arrivare a Piazza della Libertà, su cui si affacciano edifici come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo del Comune e la Torre dell’Orologio. Quest’ultimo consiste in un enorme quadrante blu con indicazioni circa l’ora, i mesi, le fasi lunari, i pianeti e i segni zodiacali, un guazzabuglio di dettagli che culmina due volte al giorno nell’accensione di un carrillon con tanto di angelo con la tromba e Re Magi che vanno a rendere omaggio alla Madonna. Un pelino pacchiano, ma vale la pena perderci qualche minuto.
Più su ho detto che siamo in una fase di ristrettezze economiche dettate da questioni personali e da un viaggio alle porte. Quello che intendevo dire è che io sono a rota di shopping, ma ho un fidanzato molto molto serio che mi ricorda quanto sono brutte le dipendenze. Tranne concedermi ogni tanto un po’ di corda per farmi comprare oggetti deliziosi e assolutamente superflui. Tipo quelli che ho acquistato da Emporio Ultrafragola, come dicono loro stessi, “un emporio di cose perlopiù inutili ma belle”. Solo per i proprietari, vale ben una visita.
Dopodiché è la volta dello Sferisterio, una struttura voluta dai Cento Consorti, famiglie maceratesi benestanti che volevano un posto per il gioco della palla con il bracciale, e in seguito riconvertito a spazio per concerti e altri eventi culturali. Il biglietto ha un prezzo irrisorio ma si può camminare nell’arena solo fino a un certo punto. Non fatevi ingannare, dall’esterno è un edificio abbastanza anonimo e poi dentro rivela la sua anima neoclassica fatta di colonne e drappi. Volevo attaccare a cantare “Don’t Cry for me, Argentina” ma ci ho ripensato quando è entrata una comitiva urlando “Ispanico, Ispanico”. A ognuno le sue fantasie.
Facciamo una breve scappata nel chiostro di Palazzo Buonaccorsi prima di andare a cena all’Osteria dei Fiori, un piccolo locale dove mangiare piatti tipici della zona. Siccome oltre che di shopping, sono una drogata di Tripadvisor, mi ero informata e avevo letto delle recensioni sul servizio freddo dei proprietari. Ora, posto che non vado in un ristorante per fare nuove amicizie, la mia opinione è che il servizio può anche essere definito austero, ma la cucina ti accoglie e avvolge come l’abbraccio di un amante. Abbiamo assaggiato di tutto, ma soprattutto i Vincisgrassi, una sorta di lasagna con tanto ragù e rigaglie di pollo che da sola vale il conto.
GIORNO DUE – Il secondo giorno Dio creò la seconda colazione e vide che era cosa buona e giusta. Soprattutto buona. Fatta una prima colazione in albergo per dovere di cronaca, incontriamo gli amici di Alessio da Maga Cacao, una cioccolateria che ha una selezione di caffè talmente ampia che quando ho scelto, ero invecchiata di un anno. Golosa è dire poco. Trascorriamo la mattinata tra chiacchiere che scorrono facilmente e fette di torta ad accompagnare. Ci salutiamo dicendoci che ci vedremo ancora, quantomeno per assaggiare il cinghiale che fa la mamma di uno di loro. Ce ne andiamo con il sorriso che ti lascia il calore di persone belle.
Ci spostiamo verso la provincia di Ascoli Piceno, dove prosegue il nostro mini tour. Ci fermiamo prima a Grottammare Alta per goderci la vista del mare dall’alto per poi proseguire per Offida e assaggiare le olive. Nonostante l’ora tarda per il pranzo, il Vistrò ci fa accomodare e mangiare non solo il famoso fritto, ma anche un panino con delle polpette al sugo strepitose. Il problema dell’Italia è che si mangia bene ovunque.
Smaltiamo il pasto, visitando il Teatro Serpente Aureo, la Chiesa della Collegiata e Santa Maria della Rocca.
Il primo è uno dei tanti teatri storici disseminati per le Marche, che prende il suo nome dalla leggenda che circola intorno al nome stesso della città (Offida dal greco ophis, serpente). È una struttura ancora funzionante che ospita vari spettacoli, tra cui quello tanto sentito del Carnevale. La seconda è una bellissima e imponente chiesa che ospita nella cripta una fedele riproduzione della grotta della Madonna di Lourdes. Infine Santa Maria della Rocca, un castello di proprietà nobiliare poi ceduto ai monaci e costruito su due livelli.
Arriviamo finalmente alla meta del nostro viaggio, la Tenuta Cocci Grifoni, un’azienda vinicola che ha fatto di valori come il territorio, l’ecosostenibilità e la famiglia, i pilastri solidi su cui poggiare. Ho conosciuto la famiglia Cocci Grifoni un anno fa e da allora sono diventati parte della mia storia. Stavolta la scusa è Stappa 2018, una manifestazione enogastronomica con cui avvicinare il grande pubblico ai sapori di una terra.
Quando parlo di essere diventati parte della mia storia, intendo letteralmente. Ci sono incontri, nella vita, che lasciano un’impronta temporanea destinata a non lasciare traccia, poi ci sono loro, che non hanno esitato a ospitarci nella propria casa, facendoci entrare nella loro intimità, dividendo con noi la tavola, il letto e il bagno. La capobanda, la signora Diana, piccola di statura ma con il piglio del comandante di un esercito, ci ha preparato la colazione la mattina dopo, accogliendoci nella sua cucina da nonna con una tazza di caffè e la crostata fatta in casa. Hanno pranzato insieme a noi con gli avanzi della sera prima, parlando davanti a un calice di bianco di brand identity, generazionalità e rapporti umani. Questi sono i Cocci Grifoni, una famiglia che allunga le sue radici a tutti quelli che lo chiedono.
Se passate da queste parti, ma anche se non ci passate, merita di essere conosciuto questo angolo di paradiso che non ha dimenticato le sue radici, ma che sa anche l’importanza di tramandarle e se necessario cambiarle per le generazioni future.
GIORNO TRE – È l’ora dei saluti, l’azienda porta ancora i segni floreali della sera precedente, noi mangiamo un boccone di fronte alle colline che si stendono morbide e rigogliose. Ci lasciamo con un abbraccio e anche qui con la promessa di tornare.
Sono stati tre giorni, troppo pochi per riprendersi da un anno emotivamente e professionalmente intensissimo, ma pieno di persone, dei loro abbracci, della loro capacità di cambiare insieme a te, delle parole di conforto, dei sorrisi sinceri e dei cuori ancora di più.