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2019. Una non lista di buoni propositi

Ho pensato a lungo se partecipare anche io al tradizionale resoconto dell’anno che sta per concludersi così da fare posto ai prossimi dodici mesi nuovi di zecca e la risposta, mi sembra evidente, è stata perché no?
In verità vi dico che sto attraversando una fase di indolenza che mi avrebbe fatto desistere se 1) il Dottore non mi avesse minacciata di cose indicibili che comportano una perdita di sangue, se non avessi preso in mano il computer e 2) alla fine tirare le somme fa sempre un gran bene. Quello che ieri era il diario segreto, che a rileggerlo oggi fa morire dal ridere, oggi è un post, un blog, una newsletter. In tutti questi casi serve a prendere le distanze dalle esperienze, a fermare i momenti, a seguire il percorso che uno ha fatto, a condividere, a consigliare, ad aiutare.
Mai come quest’anno ho letto tante newsletter e articoli di blog, sono passata di palo in frasca dall’ascoltare un podcast sul potere emotivo del cibo, a leggere un post su Instagram. Ecco, il 2019 è stato l’anno in cui ho ricominciato a scegliere me; so che si dice spesso quando si scrivono cose per salutare il vecchio anno, ma io ho letteralmente scelto me. E nello scegliermi, ho scelto anche chi doveva accompagnarmi in questo cammino, a livello figurato e fisico.
Ho scelto, per esempio, Gianluca Diegoli, un uomo del marketing con una capoccia così, il quale nella sua ultima newsletter scrive: “… a fine anno si fanno i bilanci, di solito accompagnati da previsioni ma soprattutto da obiettivi. Per fare bilanci però ci si deve essersi fissati degli obiettivi: e io – come persona – non ho mai avuto granché voglia di fissarmeli. Un peccato, perché deve essere bello dire “wow, obiettivo riuscito”. Avere la risposta pronta a come sarai tra cinque anni. Cose così.”. In pochissime parole ha riassunto il mio anno.
Io non sono qui a riportare un bilancio del 2019 perché gli obiettivi che avevo ho dovuto modificarli in corsa. Il che non significa non avere ambizioni o progetti, ma vuol dire sapere quando essere indulgenti con se stessi. E io che non lo sono di natura, con me stessa soprattutto, sto imparando come fare.
Un’altra persona che seguo sui social, Myriam Sabolla, in un post recente su Instagram scrive: “Mi dispiace non essere sempre il role model che altri si aspettano da me. Che io stessa mi aspetto. E voglio imparare a farmene una ragione, e anche a raccontare che non tutto è rose e viole, nella vita.”.

Sul finire di questo anno, ho dovuto lasciare andare le aspettative di me e su di me per aprire le porte all’imperfezione.
A novembre, appena tornata da uno dei viaggi più belli della mia vita finora, mi sono dimessa. L’anno scorso concludevo il mio anno scrivendo del ruolo da team leader che mi era stato affidato all’interno della mia azienda. Come dice Valentina Aversano nel suo podcast Pesto, “si può essere altro, si può essere di più, di meno, dipende”. Questa cosa bisognerebbe ripetersela come mantra ogni giorno per non dimenticare che le cose non sono immutabili e scolpite nella pietra, ma possono e devono cambiare. Io ho iniziato il 2019 coprendo un ruolo che non avevo mai fatto, che mi ha portato a tanto dolore quando pensavo di non essere all’altezza e a una gioia incontenibile quando venivo ringraziata dal mio team per quello che stavo facendo.

Succede poi, come in amore, che il rapporto venga messo in discussione, perché cambiano le prospettive, gli obiettivi, i valori. Allora si può provare a resistere, a stringere i denti, a fare un passo indietro per non dare un calcio avanti, ma a un certo punto bisogna lasciare andare. Non tutti i rapporti valgono la pena di essere combattuti per tenerli in piedi. Alcune volte bisogna solo avere l’onestà di dire “questo non fa per me”.
Non è stata una decisione semplice, né una scelta presa sull’onda delle emozioni. Mi sono confrontata tanto e a lungo con tutta una serie di persone su cosa fosse meglio per me e alla fine mi sono lasciata indietro quel lavoro che tanto mi aveva dato dal 2016. Hanno influito sulla mia presa di posizione alcuni fattori non irrilevanti. Su tutti la presenza di un compagno di vita che si è dimostrato disposto a sacrificarsi pur di vedermi felice e di questo sono incredibilmente grata; non tutti possono dimettersi perché possono contare sullo stipendio dell’altro. So che se fossimo stati in difficoltà economica io questa scelta avrei dovuto rimandarla, ma dopo tanto discutere abbiamo convenuto che data la situazione di cassa, potevo permettermi di volere qualcos’altro.
Nonostante l’amore di questo ragazzo così giovane e così determinato, ci sono stati e ci saranno momenti in cui io crollerò e lui dovrà sostenermi non solo economicamente. Ho pianto a singhiozzi una domenica sera quando ho realizzato che il giorno dopo non sarei andata a lavoro. L’ho fatto di nuovo quando ho dovuto chiedergli dei soldi per una spesa che pensavo avrei dovuto affrontare. Dimettersi, come lasciare una persona, come qualsiasi altra scelta che compiamo, non è tutto rose e fiori. C’è l’umiliazione, la paura di essere troppo grandi e mai all’altezza per rimettersi in discussione, il senso di colpa.
Qui entra in gioco il secondo fattore: l’ambiente. I colleghi hanno una parte fondamentale nella nostra vita lavorativa, considerando che a volte li vediamo più spesso delle nostre famiglie. Fino a un certo punto i miei colleghi erano veramente fighi e alcuni lo sono rimasti, ma non era sufficiente. Sarebbe come pretendere che una coppia rimanga insieme perché guarda qualche serie tv insieme. Alcune delle persone che sono state assunte da un certo periodo in poi, si sono rivelate manipolatrici, arroganti e oltre tutto poco stimolanti. Succede. Ho pensato anche se fosse il caso di scriverlo o meno e poi mi sono risposta che sì, si può essere onesti a volte. Anzi bisogna esserlo e dire che non è vero che: “tanto tutti i lavori sono uguali, che ti credi pure dalle altre parti trovi lo stronzo”. Maddai!
Ma sempre per tornare alla mia metafora preferita, quella di una coppia, è come costringere due persone a rimanere insieme perché “tanto pensi che con un altro/altra sarebbe diverso?”.
Purtroppo le persone con cui stavo a più stretto contatto non si sono rivelate in grado di insegnarmi qualcosa o di apprendere qualcosa o di sostenere un discorso che andasse oltre le battute da osteria. Quindi voglio scriverlo perché magari qualcuno possa trovare conforto nelle mie parole: io me ne sono andata principalmente per cercare la mia strada, ma anche perché alcune persone sarebbero state da prendere a testate sul setto nasale. So che mamma non approverà quanto scritto e non solo lei, ma ragazzi, ho deciso che tra i miei valori ci dovrà essere sempre di più l’onestà.

A questo proposito, tornando a quanto scritto più su, nella ricerca di questa strada più mia, ho cominciato a frequentare persone che invece potessero contribuire in maniera più positiva alla mia vita.
Sono stata seguita da una mia amica in un percorso di counseling (sì Emma, sto parlando proprio di te) che mi ha aiutata tanto a fare chiarezza in quell’ammasso informe di paure e frustrazioni che mi stavano tenendo bloccata nello stallo alla messicana in cui mi ero infilata. Sì perché oltretutto io non sono granché capace a cercare lavoro mentre lavoro. Ho lasciato la mia azienda senza un piano B. Emma ha avuto un ruolo fondamentale nel tenermi la mano su questo nuovo cammino.

Quando si è infelici, di solito vengono emessi molti segnali, più o meno consci. L’abbrutimento che si era impossessato di me in conseguenza all’insoddisfazione professionale, ha portato a una serie di effetti, tra cui l’instupidimento. A un certo punto mi sono chiesta se non fossi diventata irreversibilmente stupida; non leggevo più, non scrivevo abbastanza, non mi interessavo alle cose. La mia attività principale era tornare a casa e stordirmi con Netflix. E pensare che da ragazza ero una lettrice vorace, cosa di cui si stupivano anche i professori. Io ero quella che al liceo fece il tema migliore dell’istituto, tanto da meritarmi la stretta di mano del presidente della commissione.

Poi vengo a conoscenza di un gruppo di lettura di Roma, Strategie Prenestine, che si incontra una volta al mese per proporre un libro da leggere tutti insieme. All’inizio neanche ci volevo andare per non trovarmi di fronte a gente preparatissima dovendo ammettere che io ero lì per essere curata da questa mia apatia intellettuale. Sono andata, ho iniziato a leggere i libri proposti mensilmente come compito da fare, ho continuato scegliendone di mia spontanea volontà, ho conosciuto delle persone veramente in gamba, con alcune ho iniziato a scrivermi, a confidarmi. Di questo ringrazio le fondatrici Valentina Aversano e Carola Moscatelli, per avermi rassicurato che non stavo diventando stupida.

Le persone, dicevamo, che fanno sempre la differenza. Ho rinsaldato ulteriormente i rapporti con i miei amici di sempre, alimentato quelli freschi, iniziato a conoscere persone nuove. Ho cercato chi mi sembrava mi potesse far crescere, non solo a livello professionale, ma umano. Ho perdonato e ho visto perdonare. Sto provando a perdonare me stessa di non essere perfetta, di essere fallibile. Mi sto circondando di persone che sappiano ricordarmelo, con cui confrontarmi, da cui apprendere.

Siccome sto perdendo il filo del discorso da quando ho iniziato a scrivere perché i pensieri e i sentimenti si affollano per essere appuntati, riassumo dicendo che il 2019 è stato pieno di persone. Come ho già detto altrove, se potessi scriverlo sul curriculum, metterei “Agnese Iannone. Nata a Roma il primo dicembre millenovecentottanta. Amata moltissimo”.
Quindi le persone, ma anche tutto l’amore che sono riuscite a trasmettermi in questo anno di crisi. Non è scontato, ma l’amore lo vedi dalla fine, non dagli inizi. Perché siamo tutti bravi nell’essere amichevoli e comprensivi quando le cose vanno bene, ma quando le strade si dividono, cosa rimane?
In questo 2019 ho visto coppie di amici, anche di lunga data, lasciarsi. Ho visto gli atteggiamenti cambiare, la rabbia sostituire il rispetto e ho pensato a quanto è facile puntare il dito e sgomitare per sedersi sul trono della “parte lesa”. L’ho visto fare nella vita lavorativa e in quella privata, giudicare senza mai mettersi in discussione. Sottolineare le mancanze e addossare le colpe.
Per fortuna per ognuna di queste, esistono persone che sanno ringraziare, sanno essere riconoscenti, sanno andare avanti in maniera sincera. Agli amici che stanno soffrendo per una storia finita, ai colleghi che rimangono tali anche quando le strade si dividono, a me che dovrò ancora lavorare sulle mie paure voglio ricordare di circondarsi di persone valide, oneste, compassionevoli, stimolanti. Che esistono e non bisogna mai smettere di pretendere perché “tanto dalle altri parti è uguale”. Non è uguale, non credeteci.

In conclusione, sperando di aver mantenuto un discorso non del tutto farneticante, come dice il buon Gianluca, non faccio bilanci perché non mi ero posta degli obiettivi. Ero partita team leader e mi sono dimessa. Ho fatto un viaggio bellissimo in America che considero un po’ la nostra luna di miele. Ho ricominciato a leggere, a scrivere, ho tenuto un bullet journal, sono andata a trovare gli amici su e giù per l’Italia. Ho un cucciolo di fidanzato che ogni volta mostra la dignità di un re e mi ricorda di comunicare, sempre, con tutti. Ho organizzato un Capodanno D&D con mia sorella e il ragazzo. Non ho speso tutti i soldi della liquidazione ma lo farò per qualche corso che ho già adocchiato. Ho una famiglia che mi ama. Ho degli amici che mi amano. Anche quest’anno ho accumulato tanto di quell’amore che potrei passare il 2020 in un eremo ma corca’ che lo farò perché voglio festeggiare i quarant’anni. Non ho un lavoro e al momento sto cercando di capire cosa dove perché. Ho qualche idea ma niente di serio. So che a questo punto della mia vita, posso dire cosa non mi va di fare. Non mi va di svegliarmi la mattina “tanto a fine mese mi pagano”. Non mi va di accettare qualsiasi cosa perché un lavoro è un lavoro. Non mi va di circondarmi di persone che contribuiscono alla mia vita con lo spessore di un filo che penzola da un bottone.  Non mi va di rimanere ferma per la paura di essere fuori tempo massimo per fare qualsiasi cosa, perché alla mia età hanno già tutti scritto un ebook, fatto dieci anni come consulenti nell’azienda prestigiosa, sono freelance affermati e sanno tutto di SEO, SEM e altre parole in libertà.

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Il mio 2019 finisce con tante sbavature, cose che non so fare, cose che devo ricominciare a imparare, ma con qualcosa che era da tanto che non mi permettevo, il tempo per farle.

 

Travel

New York, un posto da chiamare casa

PREVIOUSLY ON KILLBILLA: Questo su New York è l’articolo che segue quello su New Orleans che potete trovare qui. Entrambi i racconti di viaggio fanno parte della stessa vacanza che io e il Dottore abbiamo fatto a novembre 2018 negli Stati Uniti.

Cercare di raccontare e sintetizzare New York per me è un’impresa titanica; parliamo di una città “tanta”, così zeppa di cose da fare, vedere e mangiare che servirebbero due vite per comprenderne metà. Io ci sono stata più di una volta perché lì è dove ha deciso di vivere la mia migliore amica e ogni volta mi sembra di trovare qualcosa che mi era sfuggito la volta precedente.

So che ci sono persone a cui New York rimane indifferente, come ci sono persone che votano Salvini o che ancora credono che una camicia ricamata fa di un professionista, un professionista migliore. Succede, il compito di noi sani di mente è cercare di riportare le cose sui binari giusti.

 

GIORNO UNO – Arriviamo all’aeroporto JFK nel primo pomeriggio; io sono in trepidante attesa di vedere le reazioni del Dottore di fronte a una delle città che amo di più al mondo. Come ho già premesso, so dell’esistenza di persone a cui New York non è piaciuta, ma quelle persone non sono il mio fidanzato. Ci sono alcune cose su cui non posso scendere a compromessi con un partner (e proprio perché ho provato a farlo negli anni fallendo miseramente, so di cosa parlo): la fede politica, la fede religiosa, i gusti musicali, i gusti alimentari, Palermo e New York. Per il resto sono disposta a trattare.

La risposta attesa non tarda ad arrivare, ai primi grattacieli che si stagliano nella luce dorata del pomeriggio, ho paura che Alessio si rotoli fuori dal taxi per guardare ogni muro che incontra. Penso di aver visto il colpo di fulmine scattare.

Prendiamo possesso della nostra camera al Broadway Plaza Hotel e siamo pronti a iniziare la nostra avventura newyorkese.

Il privilegio di avere in città qualcuno che la conosce bene, è poter conoscere alcuni aspetti altrimenti nascosti ai turisti. Come per esempio andare a Brooklyn per una cena tra amici ed entrare in uno di quegli edifici con le scalette fuori dove ancora sono esposte le zucche di Halloween. 

Io sono in preda a una vasta gamma di emozioni, che vanno dalla stanchezza di aver preso tre voli in meno di una settimana, all’emozione di presentare tra di loro alcune delle persone più importanti della mia vita. La farò breve: è stato bellissimo e straordinariamente normale entrare nella casa di Barbara e Eddie. Eccoci tutti quanti qui, i nuovi amori da coltivare e i vecchi amori che hanno già messo alla prova la loro resistenza, tutti riuniti intorno all’isola che domina la cucina.

L’appartamento è ancora più bello di quello che avevo potuto vedere dalle foto, d’altronde i padroni di casa sono due architetti con gusto e intelligenza. Mentre giro per le stanze mi chiedo come facciano a uscire invece di rimanere chiusi a fotografare ogni angolo di questo gioiello. C’è una poltrona di design accanto a una finestra a bovindo da cui guardare le stagioni succedersi, il parquet di legno sbiancato dove camminare rigorosamente scalzi, il frigorifero gigante, il tavolo di marmo, il giradischi, il pianoforte appoggiato a una parete, la stanza colorata di Ulisse.

Stappiamo delle birre bevendo direttamente dalla bottiglia e assaggiamo le specialità americane che hanno pensato di farci assaggiare come benvenuto, dalle devil’s eggs al mac&cheese e chiacchieriamo come se ci fossimo visti la settimana precedente. Non lo so spiegare ma ci sono dei rapporti che riescono a sopravvivere al tempo e ai suoi cambiamenti, rimanendo vigorosi come se non fosse passato un giorno. Io e Barbara ci siamo conosciute che avevamo dieci anni e un carattere davvero diverso per poterci prevedere grandi amiche. Invece eccoci qui quasi trent’anni dopo, a parlare in italiano approfittando dei momenti in cui Eddie fa il bagnetto al biondo Ulisse e servendoci ancora un’altra porzione di ribs. 

Non potevo sperare in un inizio di vacanza così promettente, nel calore di un appartamento, circondata dagli affetti. 

GIORNO DUE – È una mattina splendida a New York, di freddo secco e sole. Ci incamminiamo verso il Lower East Side per un brunch con i nostri amici da Russ and Daughters; la cosa più complicata è non fermarsi ogni venti metri per fotografare le scale antincendio di un edificio o guardare a bocca aperta la pattuglia di polizia mentre gira con la sirena accesa. Tutto qui è da fotografare, toccare, guardare, assaggiare. È una città familiare e allo stesso tempo con uno stile di vita così differente dal nostro, che può sopraffare.

Il locale si rivela essere un posto luminoso a conduzione familiare dove, appese alle pareti, ci sono le foto in bianco e nero delle varie generazioni e dove si possono gustare piatti ebraici e un sacco di aringa. Non lasciatevi ingannare dall’aringa, qui troverete anche gli elementi della colazione americana: uova, french toast e succo d’arancia; siate però coraggiosi e fate colazione con i loro prodotti di punta.

A proposito, so che lo sapete, ma ve lo ripeto: a New York troverete quasi tutti i tipi di cucina ai prezzi più disparati, potreste lasciare un rene in un ristorante come mangiare qualcosa di più abbordabile nelle grandi catene. Che la vostra massima espressione di avventura sia cenare con gli involtini primavera, o che proviate qualsiasi cosa più o meno morta vi presentino nel piatto, New York può accontentarvi.

Finita la gustosa colazione, ci dirigiamo verso DUMBO, il quartiere industriale compreso all’incirca tra il Brooklyn Bridge e il Manhattan Bridge, oggi riqualificato con ristoranti, gallerie d’arte e appartamenti costosi.

Qui si gode di una vista privilegiata sullo skyline di Manhattan, quindi armatevi di pazienza perché la gente fa la fila per una foto con il ponte alle proprie spalle. Compensa il tutto la passeggiata che si fa sulle rive dell’Hudson, la vista e la capatina al Jen’s Carousel, una giostra di cavalli all’interno di una struttura di vetro che fa molto Mary Poppins.

Finito di passeggiare in quella zona, salutiamo i nostri amici e ne approfittiamo per attraversare il ponte a piedi. Anche qui mi tocca fare una precisazione: il ponte è lungo, pieno di gente e di ciclisti matti. A New York credo di aver visto la più alta concentrazione di ciclisti bulli che spadroneggiano per le strade e marcano il loro territorio con la veemenza di un leone; se disgraziatamente vi trovate sulla loro porzione di strada, sapranno rimettervi al vostro posto. A volte anche quando state al vostro posto vi ci rimettono. Ma anche qui, state camminando su quel ponte che da ragazzini vedevate solo sul pacchetto di gomme, che importa se dovrete beccarvi qualche insulto che il più delle volte non capirete?

Concludiamo la giornata da Dons Bogam Korean BBQ, che come suggerisce il nome è il barbecue coreano dove su ogni tavolo è posta una griglia su cui cuocere il proprio cibo. Consiste nell’arrostire la carne su una griglia posta al centro del proprio tavolo: molto pittoresco, delizioso e anche molto costoso. Non dimenticate mai, mai e poi mai la mancia.

 

 

 

 

GIORNO TRE – Dicevamo, New York è così ricca di cose da fare che mettete nel computo una visita a uno dei tanti musei, cosa che richiede quasi una giornata. La scelta ricade sull’American Museum of Natural History, quello del film con Ben Stiller per intenderci. Ci incontriamo con Barbara e il figlio a Central Park per fare un giro prima di iniziare la visita; siamo a novembre, l’autunno ancora è prepotente e regala colori così scenografici da sembrare irreali. Passeggiamo tra l’oro, il rosso, il verde e ancora il giallo, gli specchi d’acqua dove galleggiano placide le barche e gli scoiattoli in cerca di cibo. New York sa come rendere magica l’atmosfera.

Il museo di storia naturale è enorme, quindi bisogna scegliere cosa vedere per non rischiare di perdere le prime cinque ore a guardare i mammiferi. Le ricostruzioni dei vari habitat, della flora e della fauna esistente dalla notte dei tempi è talmente ben fatta che vi sembrerà di passare dall’atmosfera incantata della corte dell’Imperatore del Giappone alla sensazione di essere improvvisamente osservati da un dinosauro. Camminerete tra le farfalle, i Maya e le balene. È un museo suggestivo che fa sentire un po’ bambini, un po’ Indiana Jones. Il biglietto ha un costo suggerito sui 20 dollari, ma è a offerta libera, quindi se decidete di devolvere solo un dollaro, va bene lo stesso. Cercate però di non lesinare sulla cultura.

Compresa nel biglietto c’era anche la visita al Rose Center for Earth and Space, dove imparare 13 miliardi di anni di storia dell’universo; molto utile se si vuole avere una consolazione dopo tanto cibo: qui infatti ci sono le bilance che vi dicono quanto pesereste su pianeti diversi. Io su Marte peserei quanto un mio braccio. Una volta fuori dal museo, ringalluzziti dall’aver scoperto che il peso è una questione che va oltre la vostra volontà, fermatevi a gustare un hot dog da uno dei tanti baracchini disseminati in giro.

Non paghi della giornata intensa, decidiamo di intrattenerci ancora in giro per godere delle luci di Times Square di notte, quando la zona offre il meglio di sé e Blade Runner diventa un pochino più plausibile.

GIORNO QUATTRO – L’ho già detto che New York è “tanta”? È come una torta golosa di cui vi siete già rimpinzati giurando di non mangiare mai più, poi la vedete e pensate “vabbè, ormai”. Siamo quindi di nuovo per strada, per raggiungere Barbara, fare colazione insieme e vedere il suo ufficio. Parentesi: tra i posti dove ho mangiato i migliori donut cito Dough, City Bakery e Doughnut Project, dove mangiare ciambelle che nulla hanno a che fare con quelle cose plasticose che vendono in Italia. 

L’ufficio di Barbara è esattamente come ti immagini possa essere un luogo di lavoro a Manhattan, luminoso, con tanti fogli attaccati alle bacheche e dove la ragazza con i capelli fucsia e il vestito dark convive con il manager in giacca. Chiaramente io non conosco la situazione lavorativa newyorkese da vicino e sono certa che ha le sue pecche, ma l’impressione generale è stata buona e almeno ora riesco a immaginare dove passa le sue giornate la mia Barbara.

Finito con lei, ci dirigiamo in un altro dei luoghi cult: il Katz’s Delicatessen. Meglio conosciuto come location per il film Harry ti presento Sally, il locale è un deli dove mangiare su tovagliette di carta e vassoi di plastica, un posto senza grandi pretese e super affollato che ha come cavallo di battaglia il pastrami.

 

Digeriamo camminando verso Soho, entrando nell’Apple Store e nel Google Hardware Store per scaldarci e vedere le ultime novità in fatto di tecnologia. Ce lo vogliamo dire della tecnologia qui a New York? vi basti pensare che in Italia non esistono negozi Google.

Inutile ricordare anche che qui ogni negozio, ogni angolo, ogni insegna merita una visita a sé, quindi stanchi e provati dall’ennesima camminata senza sosta, ci fermiamo a prendere qualcosa da mangiare al Whole Food Market di Union Square, una catena di supermercati con un’attenzione particolare al biologico. Se non si vuole spendere una fortuna e al tempo stesso mangiare qualcosa di più sensato di un hot dog, è il posto giusto. I prezzi sono più alti di quelli dei nostri supermercati, ma la varietà della scelta e il fatto che se mangiate qui la mancia non è dovuta, vi farà cambiare idea.

GIORNO CINQUE – Ci sono ancora così tanti posti da vedere a New York? La risposta è infiniti e delle buone scarpe faranno la differenza. La prima fermata è per visitare la Grand Central Terminal, la stazione ferroviaria più grande per numero di banchine. Vale la pena di essere vista per i marmi e gli ottoni della sua struttura, l’enorme orologio a quattro facce che pende dall’alto e il soffitto affrescato a rappresentare la volta celeste. Di lì ci spostiamo a Bryant Park dove ho letto che ci sono le bancarelle di Natale e dove approfittiamo per fare shopping a tema e mangiare qualcosa di caldo. A seguire ci fermiamo alla New York Public Library, al Rockfeller Center, alla cattedrale di Saint Patrick: ogni posto che incontro mi fa venire voglia di mettermi a ballare, come se fossi sul set di un musical. Arriviamo in tempo per gustarci il tramonto sull’osservatorio in cima al Rockfeller (Top of the Rock), fa freddo, tira vento, ma intorno a noi New York brilla come il più bello tra i gioielli e niente può essere paragonato a quel momento. Se volete godervi lo spettacolo della città che risplende delle sue mille luci, ricordatevi di scegliere l’orario corretto per salire in cima, altrimenti rischiate che vi incastrino in un tour compreso nel prezzo del biglietto, che però vi farà perdere il tramonto.

GIORNO SEI – Altro giro, nuovo museo. Stavolta scegliamo il Whitney Museum of American Art, che raccoglie appunto le opere di artisti americani. Sebbene il Dottore sia più propenso a perdersi tra le tante strade della città, lo convinco con un’esposizione temporanea sulla programmazione (quella informatica informatica per intenderci), ospitata dal museo in quei giorni . Nell’ordine vediamo una mostra ben organizzata su Andy Warhol (che di solito non è il mio artista preferito), i quadri di pittori come Edward Hopper (che invece è tra i miei preferiti) e l’esposizione da nerd, di cui io capisco la metà delle cose ma sorrido un sacco e spingo tutti i tasti che trovo. 


Siccome deve aver pensato che non fossimo sufficientemente impressionati, New York decide di regalarci anche la neve. Se la città già in una qualsiasi giornata di sole è scenografica, con la neve è commovente. Usciamo dal museo contenti come bambini, i fiocchi che si posano sui capelli sui vestiti sulla barba di Alessio; mangiamo un hot dog aspettando che il vento cali e poi ci incamminiamo dentro questo dipinto fatto di tetti bianchi, alberi
 innevati e decorazioni natalizie che cominciano a sostituire quelle di Halloween. Torniamo in albergo congelati ma soddisfatti di quel regalo inaspettato.

GIORNO SETTE – Decidiamo di dedicare la mattina alla visita della zona del World Trade Center e vedere, così, anche il famoso Oculus di Calatrava.

Io ho un modo di elaborare il lutto e di partecipare al dolore che è molto privato, tuttavia devo ammettere che il 9/11 Memorial e l’area intorno risultano toccanti anche per chi come me tiene tutto dentro. Leggere i nomi delle vittime sul monumento, rimanere a fissare l’acqua delle vasche dove prima sorgevano le due torri e ascoltare il silenzio che all’improvviso cala su quella zona non lascia indifferenti.

Per quanto riguarda l’opera di Calatrava, non essendo io un architetto né un critico, mi limiterò a dire che personalmente ho apprezzato più l’interno che l’esterno. Il tentativo di far apparire la struttura come una colomba che simboleggia la rinascita di New York a mio avviso non è molto riuscito, mentre la parte dentro così inondata di luce e di bianco ha un effetto tra il paradisiaco e il futuristico, con una riuscita generale gradevole.

Finita la passeggiata al World Trade, ci incamminiamo verso Wall Street. Incontriamo per prima cosa la Trinity Church, una chiesa episcopale che con il suo stile neogotico spicca tra tutto quel ferro e vetro dei grattacieli intorno. Tra l’altro l’edificio ha anche un piccolo cimitero di lapidi a terra, che ospita alcuni morti illustri (come Robert Fulton, l’inventore del battello a vapore) e che risulta ancora più suggestivo con la neve del giorno prima a coprire le tombe.

Fatta una pausa mangereccia presso alcune bancarelle di cibo da strada, arriviamo a Wall Street che si rivela una delle zone meno interessanti del nostro viaggio. Vediamo la famosa statua del toro che viene fronteggiata da quella della fearless girl, la ragazza senza paura che un’artista norvegese, l’8 marzo 2017, mise di fronte al simbolo della Borsa come contrapposizione dell’orgoglio femminile al patriarcato. Simbologia molto interessante se non fosse per la fila chilometrica che i turisti fanno per ottenere un selfie davanti a queste due sculture. Saltiamo la fila e ci dirigiamo verso Battery Park, il parco da cui si vede in lontananza la Statua della Libertà e dove Alessio fa amicizia con qualsiasi scoiattolo che lo abita.

GIORNO OTTO – È il giorno del pub crawl, il giro dei bar insieme a Barbara ed Eddie, che per l’occasione hanno chiamato una babysitter così da affrontare questa serata come si deve. Regole del gioco: entrare nei locali il tempo di bere qualcosa e passare al successivo. Di quella sera ho ovviamente dei ricordi vaghi ed eventuali di birre bevute con sconosciuti, quarti di dollaro messi nel juke-box, cetriolini negli hamburger e speakeasy bar al piano superiore di un fast food. Quello che invece ricordo con chiarezza è tutto l’amore che ci siamo scambiati, nei brindisi, nelle confidenze che ci facciamo io e  Barbara camminando abbracciate, in Eddie e Alessio che camminano svelti davanti a noi per lasciarci parlare. Quando penso a qualcosa di prezioso, io ripenso a quella sera.

GIORNO NOVE – Ultimo giorno, ultimi giri di shopping prima di salutare la città che non dorme mai. Siamo stati abbastanza bravi da non spendere tutti i nostri averi e dedicare un giorno a comprare cose più o meno utili, cosa che facciamo dignitosamente scegliendo tazzine da caffè irriverenti e nuovi pupazzi per la nostra collezione nerd. Come per tutto ciò che la riguarda, New York è sfacciata anche nello shopping. Qui tutto merita di essere comprato, tutto è nuovo e mai visto altrove, ci vuole una volontà di ferro e un portafoglio ormai prosciugato per non fermarsi ogni cinque minuti al grido “questo in Italia mica si trova!”.

CONCLUSIONI – New York è la città dove ho tra i miei affetti più cari, se così non fosse la amerei ugualmente? Non so rispondere a questa domanda, so che ogni volta mi conquista un po’ di più e se penso alle lacrime di Alessio sul taxi che ci porta indietro, mi convinco che mi sarebbe piaciuta lo stesso. Qui puoi e non puoi allo stesso tempo qualsiasi cosa, è una città talmente viva che ti permette tanto. Ho trovato persone accoglienti e disponibili, posti incantevoli e cibo ottimo. Ho abbracciato il Dottore mentre la neve cadeva e guardato Ulisse scartare il libro che gli abbiamo regalato. Ho riso, brindato, mi sono stupita e mi hanno ricordato quanto sono amata. Ogni tanto mi chiedo cosa proverei a viverci, allora nel dubbio ho comprato un altro biglietto, pronti per New York 2019.

Lifestyle

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.