Quando qualche tempo fa mi è arrivata un’e-mail con cui venivo invitata a passare un weekend a Genova in occasione dei 25 anni del Porto Antico e dell’Acquario, la prima cosa che ho pensato è stata: Genova?Diciamocelo, la città ligure in passato era fuori dai circuiti turistici tradizionali e questo la rendeva una destinazione insolita a cui pensare. Le poche informazioni che avevo risalivano ai tempi delle elementari e alla triste vicenda del G8. Il motivo per cui accetto volentieri di andare lì è principalmente l’acquario, l’idea di vedere i delfini e gli squali mi riempie di eccitazione, per il resto non ho particolari opinioni su cosa aspettarmi. Ed è questo il bello di Genova. Recentemente è uscito un articolo del New York Times in cui si promuove la città come capitale europea da non perdere. Non è Roma né Venezia e forse è proprio questo che le conferisce lo status di luogo da vedere. Non ha percorsi obbligatori, tappe da onorare necessariamente. Genova si lascia scoprire nelle sue mille sfaccettature, nei segni che le varie dominazioni hanno lasciato e nell’orgoglio della sua gente. La Superba la chiamavano e a ragione.
È una città di mare, è una città barocca, è una città rinascimentale, sfugge a qualsiasi definizione e per secoli ha avuto il controllo del mare. Nel 1358 Petrarca scriveva: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”. Nel 2017 io la scopro per la prima volta.
Cambiare lavoro quando hai abbondantemente superato i trenta rappresenta una seconda opportunità e una sfida al tempo stesso. Pensi che finalmente vedi riconosciute le tue capacità, quel diploma di laurea con cui tenevi fermo un tavolo traballante assume un nuovo valore, ti senti come John Travolta chiamato da Tarantino dopo essere ingrassato trenta kg e aver appeso la brillantina al chiodo.
Quello che nessuno considera, o che io non avevo considerato, è che lo stile di vita verrà completamente stravolto. E di conseguenza gli orari: la sveglia, la palestra, la spesa, la doccia. Tutto si combina in un nuovo e il più delle volte pericolante incastro. Ti porti in ufficio ventisei borse per poi correre in palestra, invece una riunione ti blocca fino a tardi. Pensi di fare la spesa subito dopo il lavoro, invece ti fermi a parlare con una collega.
In tutto ciò l’esigenza di scrivere passa in ultimo piano. Pensi che se Virginia Woolf si è suicidata e Leopardi non era l’anima della festa, tutto sommato il blog può essere accantonato.
Poi però riscopri il piacere sadico che solo un pendolare conosce. I tempi morti in attesa che appaia il numero del binario di partenza, le soste obbligate per far passare un altro treno, la vicinanza quasi imbarazzante con gli altri passeggeri. Tutti quei momenti sembrano essere lì apposta per costringerti a scrivere.
Tutta questa premessa per concludere il viaggio dello scorso settembre alla scoperta del nostro territorio, ma soprattutto dei miei organi interni. Ultima ma non meno importante tappa, il Friuli.
GIORNO UNO – Prima di incontrare l’altra metà dell’armata Brancaleone con cui concluderemo la nostra vacanza, decidiamo di passare due giorni a Tarvisio per riposare le stanche membra.
Lasciamo Venezia, i suoi ponti, i suoi spritz al costo di un tramezzino e ci dirigiamo nelle terre confinanti.
Ora, passare dal Veneto al Friuli è come stare nel mezzo di una gang bang: tu pensi di aver finito, invece il bello deve ancora arrivare.
Piccola parentesi per mamme, in particolare la mia: dicesi gang bang un’antica arte giapponese con cui gli imperatori si preparavano alla battaglia.
Tarvisio è uno di quei paesi che deve dare il meglio di sé in inverno, quando la neve copre i tetti spioventi e ti aspetti che i pali della luce siano fatti di frutta candita.
L’albergo dove passeremo due notti sembra sottolineare questa atmosfera fiabesca. L’Hotel Edelhof è una struttura di legno e prato verde tutto intorno, dove i soffitti hanno le travi a vista e nelle camere gli armadi sono decorati con motivi tirolesi. O almeno credo tirolesi, non sono ferratissima sull’arte decorativa del nord. Al massimo conosco le dispense che trovi in edicola: “Dipingi tutta casa con il decoupage e fatti odiare da tutta la famiglia”.
Pervasi da uno spirito alpino, ci prepariamo a fare una passeggiata corroborante, quando il diavolo si presenta sotto forma di un cartello che riporta i prezzi del bar. Ora, io non so dove abitiate, ma a Roma centro un calice di vino sta sui cinque/sei euro, quindi pagarlo 1.50 ci fa abbandonare immediatamente ogni velleità da giovani marmotte e vestire i panni ben più comodi di Sid e Nancy.
Piccola parentesi per mamme, tranne la mia che comincio a pensare non sia scesa dalla montagna del sapone: Sid e Nancy erano una coppia tanto a modo, molto affiatata, con un leggerissimo problema di abuso di droghe. Però si volevano tanto bene.
Dopo questo primo benvenuto a base di rosso e prosciutto di Sauris, facciamo un giro per il paese.
Come dicevo prima, Tarvisio deve essere un paese che tocca il massimo del suo splendore in inverno. In estate sembra un luogo tranquillo, con le piste da sci ferme e verdi di un’erba brillante. In giro pochi turisti e tanti indigeni.
Mentre giriamo a vuoto, ci viene in aiuto San Tripadvisor, che ci porta in un locale gestito da una coppia di friulani duri e puri. Leggerete recensioni controverse sull’osteria Hladik, che è costoso, che la cameriera è scortese. Noi ci siamo stati due sere di seguito e siamo stati serviti sempre dal proprietario, uomo galante e disponibile. Certo, il suo obiettivo è consigliare ma anche vendere, quindi cercate di capire qual è il vino che produce lui e spenderete il giusto. D’altronde un posto dove si ferma a bere la polizia locale, per me è quello giusto. Si beve bene, si mangiano prodotti locali, il prosciutto con il kren e la zuppetta di ortiche e tarassaco valgono il prezzo del biglietto.
Finiamo la serata nel ristorante dell’hotel a onorare la cucina tradizionale. A quel punto ero ubriaca e non ricordo cosa ho mangiato, ma ho il ricordo di qualcosa di buono e saporito. Forse canederli, forse il nettare degli dei.
GIORNO DUE – Dopo una rinvigorente colazione in un delizioso angolino del ristorante affacciato sul prato, ci dirigiamo alla conquista del monte Lussari. In noi si agitano sentimenti propositivi di purificazione dai bagordi precedenti ed espiazione di colpe future. La montagna si raggiunge tramite una funivia che porta a 1790 metri di altezza e di escursione termica. Alpini all’ascolto, io lo so che voi sapete, ma io allora no e mi sono presentata sulla cima dell’Olimpo che forse solo Paris Hilton quando la costringevano a mungere le mucche.
La cosa bella dell’altezza è che ti fa sentire allo stesso tempo il padrone del mondo e un piccolo essere al cospetto dell’universo. Ma ancora più importante è ricordare che in montagna vige un’altra temperatura, di almeno dieci gradi in meno rispetto a dove siete partiti. Quindi vestitevi a cipolla.
Oppure, dopo aver visitato il santuario e respirato così tanta aria pulita da credere di essere in paradiso, andate a scaldarvi da Jure, meglio conosciuto come Rifugio al Convento. Lì potrete trovare il giusto tepore assaggiando un capriolo al salmì con polenta o un gulasch rovente come il mio intestino. La discesa a valle vi sembrerà più leggera. In realtà sono i grassi saturi che hanno avvolto dolcemente quella parte di cervello che vi fa percepire la fatica.
La giornata prosegue verso uno dei laghi più fotografati negli ultimi tempi: Fusine.
Togliamoci subito il pensiero, i laghi in realtà sono due, ma che nessuno si offenda, quello che lascia senza parole è quello più in basso. Lì tutte le fantasie erotiche sull’essere in un set cinematografico si realizzano. L’acqua del lago ha delle sfumature che vanno dal verde al blu talmente intense da sembrare pietre preziose. Il riflesso degli alberi sul lago ha la perfezione di un disegno geometrico. Ci sono le barchette colorate ormeggiate su un pontile di legno e i bagni hanno le finestre di legno intarsiate. Se mai volessi credere al paradiso, io lo immagino così, ombreggiato e silenzioso.
GIORNO TRE – È il giorno di riunirci ai nostri amici, ma prima di metterci in marcia per Cividale del Friuli, facciamo una capatina in Austria. Lo so, affronto le situazioni con lo stupore di un fanciullino, ma questa cosa che un attimo prima sei in Italia e un quarto d’ora dopo ti ritrovi in un altro paese, mi fa impazzire di gioia. Sarei capace di scendere dalla macchina e fare un balletto al confine, ma ho paura che mi sparino e quindi trattengo la felicità per Villach. Ho trascorso veramente troppo poco tempo lì per esprimere un giudizio sulla città e quel poco l’ho trascorso degustando una wiener schnitzel accompagnata da una birra ghiacciata. D’altronde il modo migliore per conoscere un posto, è farlo a tavola.
Nel frattempo abbiamo lasciato l’Austria e ci dirigiamo di nuovo verso il Friuli e più precisamente a Prepotto, dove saremo stati ospiti dell’azienda agricola Scribano.
Se Fusine è il paradiso, la valle dello Judrio è il paradiso accanto a Dio. Qui i filari di viti si snodano dolci sui colli morbidi e i cartelli delle case vinicole si susseguono promettenti. Il cielo all’improvviso si fa nero di pioggia e l’atmosfera assume i contorni di un dipinto fiammingo. In un attimo è il diluvio universale.
Tra le cose più belle che possono accadere mentre l’acqua scende a grappoli e i vestiti in pochi secondi diventano zuppi, è entrare dentro un posto che sa di famiglia.
Se vi trovate a passare per il Friuli e avete bisogno di una sosta che assomigli più alla vostra casa, fatevi coccolare da Caterina e Alberto.
Loro sono ragazzi giovani che hanno preso in mano le redini dell’azienda di famiglia. Qui tutto ha una storia da raccontare: dal tavolo della cucina al lavabo dietro il bancone dove ci viene offerto un bicchiere di vino.
Abbiamo già detto quel fatto del paradiso, vero? Qui è l’Eden elevato alla seconda. C’è Caterina che ha i capelli rossi e un sorriso schietto come la sua terra. C’è Alberto che ha una stretta di mano salda e rassicurante. Ci sono i cani che girano, un bambino che disegna per terra e un altro in arrivo. Dalla cucina arrivano odori invitanti e la vigna brilla della pioggia appena passata. Sembra di stare in un episodio della Casa nella Prateria, dove tutti si vogliono bene e si respira un’atmosfera di genuina felicità.
Nel frattempo sono arrivati gli altri del gruppo con cui continueremo la vacanza e insieme ci sediamo a tavola a mangiare polpette al sugo e salame. Manca la neve e poi siamo in un libro di Dickens.
GIORNO QUATTRO – La colazione dagli Scribano è perfetta così come la immaginavo, con i piatti con i fiorellini e le marmellate fatte in casa. Vorrei poter restare qui ancora ma è già ora di ripartire, destinazione Maniago, dove avremo la possibilità di visitare il palazzo omonimo. Non prima però di aver lasciato le valigie nel delizioso appartamento a Cividale dove passeremo il resto della vacanza: Casa Julia.
Arrivati a Maniago, ad aprirci le porte della residenza è la contessa Alessandra d’Attimis Maniago, una donna energica e con il fascino d’antan che i nobili hanno per nascita.
Giriamo attraverso i giardini maestosi e le scuderie, per poi passare nelle stanze affrescate e arredate con mobili d’epoca. La particolarità del palazzo consiste nel poter offrire vitto e alloggio. Ospita infatti, all’interno del complesso, un ristorante, un albergo e offre la possibilità di celebrare matrimoni o organizzare eventi. Hanno pensato a tutto.
A noi tocca la fortuna di essere sfamati in una delle stanze cinquecentesche, dove rimane a farci compagnia anche la contessa.
Come posso spiegare il livello di eccitazione nell’essere a tavola con un nobile mentre vengono serviti dei tagliolini al prosciutto da Sauris? La sensazione è un po’ quella che immagino possa impossessarsi di un bambino in Lapponia al cospetto di Babbo Natale. Siamo satolli e increduli mentre gustiamo un pranzo regale. Troviamo addirittura la forza di prendere bonariamente in giro la contessa con delle battute da Il Secondo Tragico Fantozzi. Ora sospendiamo tutto, guardiamo il link e immaginiamo quattro disperati senza pudore che si scambiano battute con una nobile sotto gli effetti di ottime bottiglie gentilmente offerte dalla casa.
Lasciato anche il Palazzo d’Attimis Maniago e sorpresi di nuovo dalla pioggia, andiamo al lago di Barcis.
Non so come sia con il bel tempo, ma in quell’atmosfera grigia e pungente il posto è avvolto da una foschia che lo fa apparire misterioso e affascinante, come se da un momento all’altro dovesse emergere il mostro di Loch Ness. Appurato che non ci attaccherà nessuna creatura mitologica, torniamo indietro e ci prepariamo ad assaggiare il frico con la bolla preparato dal ristorante Il Campanile.
Due cose dovete sapere: in Friuli si mangia tanto e si beve sempre. Credo ci sia la gogna per gli astemi. La seconda, il frico è un impasto di patate e Montasio a forma di frittata, un agglomerato bollente e filante di millemila calorie che vi riconcilia con il mondo. Quello con la bolla si presenta come una cupola croccante sotto cui si cela la delizia di patate e formaggio. Bisogna avere due stomaci e sette vite per sopravvivere al Friuli.
GIORNO CINQUE – È tempo di accomiatarci da Cividale. Si torna a casa, alla routine quotidiana, a un’alimentazione che preveda anche l’introduzione di verdure. Ma prima facciamo una sosta nel regno dello street food friulano. Altra cosa fondamentale da sapere su questa regione: non è mai troppo presto per cominciare a bere. Quindi le dieci e mezza del mattino ci sembra un orario ragionevole per ordinare un calice di vino bianco, frico e salame. Il giusto sprint per affrontare un ultimo giro per la città. Su tutti va nominato il Ponte del Diavolo, così chiamato perché pare sia nato da un patto che anticamente i cittadini fecero con il diavolo per ottenere un ponte che congiungesse le due sponde del fiume Natisone.
Finisce qui la nostra avventura in questa terra fiera e orgogliosa, a tratti dura a tratti accogliente, che alla faccia di chi dice che il nord Italia è emotivamente più freddo, mi ha lasciato una traccia sul cuore che saprà sempre di famiglia.
Correva l’anno 1997 e io vedevo per la prima volta il Consorzio Suonatori Indipendenti in concerto. Non ho granché memoria di quel live, troppo intenta a baciare il ragazzo che frequentavo allora.
Da quella data sono passati anni, fidanzati, lingue e tagli di capelli, solo alcune incrollabili certezze non hanno vacillato sotto le granate del tempo: la fede politica, quella religiosa e Giovanni Lindo Ferretti.
In verità vi dico che se Cristo si è fermato a Eboli, il mio ricordo musicale non si è mai mosso dai CCCP e i CSI. Tutto quello che è venuto dopo, l’ho saltato a pie’ pari.
Quando mia sorella mi dice che Giovanni Lindo Ferretti sarebbe venuto in concerto, all’inizio ho esitato. Mi sembrava di rovinare la memoria dei tempi che furono, quando ero giovane e carica di speranze e durante l’occupazione, al liceo, cantavamo “Punk Islam”. Tornare a sentire un’icona della mia adolescenza, avrebbe assomigliato alle rimpatriate tra compagni di classe, dove si fa la conta di quelli che hanno avuto successo, quelli infelici e le rughe a sostituire i sogni.
Poi la sorella infingarda di cui sopra, mi manda la scaletta del concerto e a quel punto, di fronte alla promessa di “Tomorrow”, non ho potuto rifiutare.
Arriviamo al locale con netto anticipo rispetto all’inizio del concerto e notiamo con piacere che l’età media è quella delle rimpatriate scolastiche. Siamo tutti seduti, qualcuno sbadiglia, l’aria che si respira è quella rilassata di chi non ha più niente da dimostrare.
A questo proposito apro una parentesi, ma la chiudo subito ché abbiamo tutti un’età e la cervicale non reagisce più tanto bene. Quando hai superato abbondantemente gli enta e qualcuno pure gli anta, le serate che iniziano dopo le 21.30 cominciano a diradarsi insieme ai capelli. Prima, alle undici di sera, stavi ancora scegliendo il vestito giusto e se arrivavi in discoteca a mezzanotte eri il perdente della situazione. Più passano gli anni e più l’after viene sostituito dall’aperitivo, i vodka e Red Bull da una bottiglia di vino e il trucco tenuto sul viso per due giorni da un contorno occhi che ha il costo di una rata del mutuo.
Questa premessa è necessaria per capire con quale disagio tutti quelli presenti nel locale iniziano a guardare nervosamente l’orologio quando alle undici meno un quarto il concerto non sembra iniziare, qualcuno fa un timido tentativo di alzarsi in piedi ma la sciatica lo richiama all’ordine e poi, all’improvviso, c’è lui. Giovanni Lindo Ferretti sale sul palco accompagnato dai fidi Luca ed Ezio e il tempo si ferma per lasciar parlare quest’uomo sceso dai monti.
La prima canzone è tratta dall’album “Saga. Il Canto dei Canti“ ed è un brano che mi aiuta ad ambientarmi con questo live che sembra quasi privato, un passatempo tra pochi amici che vogliono ricordare un tempo che non c’è più. Come capirò in seguito, questa formazione a tre riesce a dare al concerto la direzione che vuole, ora intima, ora scanzonata.
Seguono le tracce classiche dei vecchi album dei CCCP, alcune rivisitate, come nel caso di “Amandoti”, alcune più fedeli alla versione originale come “Oh! Battagliero” e “Curami”. Balliamo felici come se avessimo di nuovo diciassette anni e il cantante emiliano è il nostro pifferaio.
A questa ondata di canzoni disimpegnate senza esserlo, si aggiungono quelle più mature del periodo CSI e il carisma di Giovanni Lindo Ferretti arriva dirompente come un lampo che squarcia l’aria calda di una notte d’estate. Mentre la sua voce recita: “S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe”, il pubblico è ipnotizzato dalla sua capacità di strapparti dal tepore della tua quiete e lasciarti a tremare “come creatura“. L’orrore della guerra è palpabile più di tutte le immagini veicolate dai media ogni giorno. Una cosa la voglio dire su quest’uomo, sa raccontare.
Il brivido continua quando attacca “Del mondo” e sento il mento tremare quando arriva al pezzo “povertà magnanima, mala ventura, concedi compassione ai figli tuoi”, ogni parola è come sabbia bagnata che mi trattiene e mi fa sprofondare.
La serata continua così, tra momenti più leggeri e parentesi intense, tutto sottolineato dal cambio veloce di strumenti dei musicisti, che sono due ma fanno per venti. A concludere questo live ci pensa “Spara Jurij”, tirata come la ricordavamo e con la stessa frenesia la balliamo. E all’improvviso come è arrivato, Giovanni Lindo saluta e se ne va.
Voto al concerto: otto. Ringrazio mia sorella per avermi convinto a rivedere quest’uomo, che, da solo, ha l’energia di una centrale nucleare. Qualsiasi siano le polemiche legate alle sue scelte negli anni, è innegabile il suo carisma. Lui sale sul palco come se fosse capitato lì per caso, canta con le mani in tasca dondolandosi sul posto, ha alle spalle sessant’anni di storie da raccontare e lo fa con una naturalezza che non vuole conferme né chiede consensi. Ci fa sorridere quando ammette che lui, ogni volta che scende dai monti, si chiede perché lo ha fatto e che avrebbe bisogno di un mediatore culturale per rapportarsi con il resto del mondo. Sembra sincero e, cosa ancora più importante, in pace con se stesso. E probabilmente in pace con i suoi demoni.
Il riassunto di questa serata è nelle parole di una donna che chiede a un amico: “Ma sul serio hai pogato?”.
Ciao Lindo, noi ex giovani ti salutiamo.
Quando una bionda lascia che parte dell’anima le venga rosicchiata da un topo di biblioteca, il risultato è una come me. Un po’ Sheldon un po’ Penny, un po’ Paris Hilton un po’ Neil deGrasse Tyson, uno dei piaceri che ho cercato di mantenere nel tempo sono i musei.
All’inizio erano le gite con la scuola, occasione più sociale che culturale. Il giorno della gita non potevi essere interrogato, era l’apice della trasgressione e mamma ti dava i soldi “perché magari vuoi comprare un souvenir”. Che di solito era un panino da McDonald, ma questa è un’altra storia.
Tutte quelle visite, però, devono aver fatto breccia nella cortina ossigenata dei miei capelli, seminando una certa attrazione reciproca tra me e l’arte. Attrazione basata più sull’aspetto fisico che intellettuale.
Io con il mio gusto un po’ rozzo e una sindrome di Stendhal da discount, lei con i suoi modi austeri e a volte un po’ distanti.
Qui entra in gioco l’argomento principale di questo articolo: l'”empty museum” e come mi ci sono ritrovata dentro.
CENNI STORICI
Facciamo un po’ di chiarezza. L'”empty museum”, letteralmente museo vuoto, è un movimento nato da un tale Dave Krugman nel 2013. Dave è un ragazzetto con cui ho avuto il piacere di passare
una settimana in Salento la scorsa estate. Ce l’avete presente quegli hipster riservati che camminano ciondolando con la barba e camicie improbabili? Ecco. Lui è stato il primo a proporre una visita al Metropolitan Museum di New York dopo l’orario di chiusura, invitando alcuni Instagramers. La formula piacque talmente tanto, che venne poi ripetuta a Londra e da lì divenne una consuetudine all’interno di Instagram.
In pratica cosa succede quando si viene invitati a un empty museum. Alcuni Instagramers vengono chiamati per scattare foto e far conoscere all’esterno una realtà già conosciuta come quella museale, ma rendendola in una prospettiva unica. Questo evento, infatti, presenta dei risvolti enormi: il primo tra tutti è l’esclusività. Passeggiare indisturbati per un museo pressoché deserto è emozionante. Le opere vengono vissute in maniera più profonda, non disturbati dal vociare della folla. Questo permette, altresì, di sviluppare maggiore creatività rispetto al modo di scattare. Non c’è fretta nella visita e il silenzio contribuisce alla creazione. Un altro vantaggio, poi, è la promozione della struttura. Là dove, da sempre, il museo è vissuto come un luogo sacro che raramente si concede ai comuni mortali, la formula “empty” permette di avvicinare due realtà apparentemente così distanti. Da un lato il museo si rende più accessibile a tutti, dall’altra il pubblico si sente maggiormente invogliato alla visita. Complici anche le nuove tecnologie e forme di comunicazione, l’arte si avvicina al popolo con una veste più amichevole. So che in molti hanno storto il naso di fronte a questa alleanza, ma d’altronde la sopravvivenza dei musei dipende anche dalla capacità di attrarre il pubblico, ricorrendo a metodi come l’utilizzo dei social e di un linguaggio più “popolare”.
URBINO – PALAZZO DUCALE
Fatto tutto questo preambolo, come già accennato all’inizio, l’attrazione tra me e l’arte ha fatto in modo che io venissi invitata a diversi eventi in ambito “empty”. Dall’Accademia Carrara di Bergamo al Castello del Valentino a Torino, cito solo alcune delle recenti manifestazioni a cui ho partecipato.
Cominciamo dal Palazzo Ducale di Urbino e relativa Galleria Nazionale.
Già la visita a Urbino vale il prezzo del biglietto. Città che si estende su un territorio collinare, vanta il suo centro storico come patrimonio dell’umanità UNESCO. Qui si respira Rinascimento a pieni polmoni e il Palazzo Ducale ne è il simbolo perfetto. Voluto nel XV secolo dal Duca di Urbino, è un edificio maestoso già dal cortile interno fatto di portici ad arco. Nelle sale interne è possibile riconoscere la magnificenza degli ambienti, con soffitti altissimi e grandi camini. Le opere ospitate sono tra le più famose, dalla Flagellazione del Cristo di Piero della Francesca alla Venere di Urbino a opera di Tiziano, motivo principale della nostra visita. Il dipinto, infatti, a distanza di quasi cinque secoli dalla committenza di Guidobaldo II della Rovere, è tornato nella sua città di origine per un breve periodo.
Se non siete stati tra i fortunati che hanno potuto vedere il quadro ospitato fino al 18 dicembre 2016, fate sempre in tempo a visitare il resto della meritevole Galleria Nazionale.
Un consiglio: se avete tempo, fermatevi a dormire all’Urbino Resort, una tenuta che ha riportato in vita le antiche case coloniche di un borgo rurale, per farne una struttura alberghiera nel rispetto dei principi territoriali.
TERME DI DIOCLEZIANO E MOSTRA DI JEAN ARP
Appena tornata da Urbino, mi aspetta la visita alle Terme di Diocleziano, in occasione della restrospettiva su Jean Arp, maestro francese che ha avuto un ruolo di primo piano nell’ambito delle avanguardie culturali e tra i fondatori del movimento Dada.
Stavolta si gioca in casa e proprio per questo devo subito fare un’ammissione di colpa: se ero mai stata in questo posto, io non ne ho memoria. Essere nata e cresciuta in una città, causa spesso il rimandare la visita di tanti luoghi a un tempo non meglio definito. La chiesa Tal dei Tali? Mai vista, ma tanto sono di Roma, prima o poi ci andrò. E così per tanti altri posti rimasti inosservati, inascoltati.
Prendiamo le Terme di Diocleziano, il più grandioso complesso termale mai costruito nel mondo romano. Ci sarò passata davanti un miliardo di volte quando ero liceale e l’autobus passava di fronte alla struttura. La sua superficie vastissima comprendeva anche Piazza Esedra, che a molti non dirà niente, ma per me ha significato un punto di riferimento importante negli anni. Le manifestazioni quando ancora c’era un sentimento politico partivano da lì. Gli appuntamenti con gli amici venivano dati quasi sempre alla fontana, così facilmente individuabile. Eppure ho perso la possibilità di conoscere meglio la storia, rinviando quel momento a poi, tanto c’è tempo.
L’empty museum, in questo senso, ha dato nuova linfa vitale a luoghi che stavano rischiando di cadere nel dimenticatoio.
Nelle solenni sale del museo si sviluppa la mostra di Jean Arp, in un dialogo continuo tra le forme care al maestro e la classicità del luogo. Volutamente uso la parola dialogo per sottolineare come l’artista francese abbia subito negli anni la fascinazione degli studi antichi, che tornano nelle sue opere. Basta soffermarsi sulla sinuosità delle linee di molte sculture per ritrovarci un richiamo della cultura classica.
Anche questo è un aspetto importante della nuova realtà museale che vuole aprirsi ad altre forme di comunicazione e all’interazione con altri stili artistici.
Parole apparentemente in libertà per darvi un consiglio da amica bionda: niente slip bianchi al mare se non siete David Beckham e riscoprire i piccoli e grandi musei del nostro Paese. Un futuro luminoso poggia sulla conoscenza del passato.
MUSEI CAPITOLINI E MERCATI DI TRAIANO
Sempre all’interno della cornice romana, suggerisco una visita ai Musei Capitolini e successivamente ai Mercati di Traiano.
I primi costituiscono il complesso museale pubblico più antico del mondo, la cui fondazione viene fatta risalire al 1471. Al suo interno, tra le tante opere presenti, è da menzionare la statua equestre di Marco Aurelio in bronzo.
I Mercati di Traiano, come suggerisce il nome, era un centro “polifunzionale” composto da magazzini uffici e negozi, al servizio dell’amministrazione imperiale. Fiore all’occhiello di questa struttura è la vista su Roma che offre.
Se poi a furia di ripetere la parola mercato vi viene fame, vi consiglio di fare quattro passi verso il Rione Monti e fermarvi a mangiare da Zia Rosetta.
Io ho preso un panino con la coratella (le interiora di animali da cortile) e uno con la guancia di vitello.
Perché se è vero che l’occhio vuole la sua parte per nutrire lo spirito, lo stomaco vuole tutto il resto.
Dall’ultima volta che ho scritto un articolo sono successi: calamità naturali, Donald Trump presidente degli Stati Uniti , il divorzio dei Brangelina, io che mi sono messa a dieta. Se aspetto ancora un po’ arrivano le locuste, la moria delle vacche e i primogeniti non se la passeranno benissimo.
Cosa era successo nelle puntate precedenti: la mia vacanza enogastronomica, cominciata in Toscana, prosegue a Venezia.
GIORNO UNO – Mi sveglio la mattina della partenza convinta di aver perforato l’ulcera. Mentre dentro di me l’Inferno dantesco e il Mordor di Tolkien si stringono la mano, io comincio a implorare i miei avi di liberarmi dal male, giuro di devolvere l’otto per mille alla chiesa cattolica e di smettere di bestemmiare in rima. Prometto di riportare a mia sorella le scarpe che ho fatto finta di non sapere dove fossero e di nutrirmi solo con muschi e licheni. Ma soprattutto pronuncio la madre delle frasi: “oggi non bevo”.
Arriviamo a Mestre verso l’ora di pranzo, carichi di promesse e belle speranze. La prima tappa obbligatoria è l’albergo. L’hotel Bologna è una di quelle strutture in cui entri e ti chiedi perché dovresti uscire a visitare la città. Personale attento, parquet in camera ma soprattutto un calice di prosecco allo stesso costo di un cappuccino vista Colosseo.
Una doccia e un riposino dopo, prendiamo coraggio e raggiungiamo alcuni amici a Venezia. La città è come la ricordavo, piena di gente ma allo stesso tempo misteriosa, affollata nelle zone più famose e silenziosa nelle calli meno conosciute. Una città avvolta su se stessa nonostante i turisti, una dama riservata nel bel mezzo di una festa. Mi stupisco ancora di fronte ai panni stesi che si riflettono sull’acqua, al traffico di barche, al tramonto che infiamma il Canal Grande. Noto che i gabbiani sono sempre grossi come tacchini, ma non invadono più Piazza San Marco come un tempo. Invadono tutto. E mentre mi guardo intorno con occhi che non ne hanno mai abbastanza di tutta quella bellezza, viene pronunciata la parola magica “aperitivo”.
Tutte le promesse, fatte nel tragitto tra la Toscana e il Veneto, hanno avuto la solidità dei titoli bancari dopo che l’Inghilterra è uscita dall’Europa. A quel punto attacco una cantilena costante e continua per costringere i miei amici a trovare una farmacia che mi dia eroina, assenzio, oppio o semplicemente un fegato nuovo per affrontare l’happy hour. Una volta individuata, chiedo alla farmacista qualsiasi cosa mi permetta di continuare la vacanza senza essere ricoverata prima. Lei mi risponde con una delle battute più divertenti da quando Robin Williams è morto, cioè che non dovrei bere, mentre io mando giù pasticche di Gaviscon come se fossero arachidi e annuisco rassicurante. Appena uscita dal negozio, andiamo a bere.
Quando hai la fortuna di essere accompagnata da abitanti del luogo goderecci e appassionati di cibo, scopri dei posti che altrimenti non avresti conosciuto. La Vineria All’Amarone è un locale gestito da un caloroso quanto competente veneziano, che ci introduce al tradizionale cicchetto. Dicesi cicchetto, uno stuzzichino che si presenta, solitamente, sotto forma di pane con sopra un affettato o del pesce. Uno su tutti, il cicchetto con baccalà mantecato. Due o tre bottiglie di prosecco dopo, torniamo al nostro confortevole hotel, con la pancia piena e la borsa pure. Di Gaviscon.
GIORNO DUE – Il risveglio, se possibile, è ancora più dolce. Scopro che la sala per la colazione ha la macchina per i pancake. Incurante dei segnali disperati che il mio corpo manda, mangio non come se non ci fosse un domani, ma come se non ci fosse stato uno ieri in cui mi sono ingozzata di cicchetti. Tempo di entrare faticosamente nei pantaloni e usciamo di nuovo, diretti a un classico e romanticissimo giro in gondola.
Mi scuso con gli amici gondolieri, ma questo momento tipicamente veneziano tutto fa tranne venire voglia di accoccolarsi ad ascoltare il mare. La gondola è pacchiana e mentre passiamo sotto i ponti, tutti ci guardano come se fossimo Don Antonio abbracciato al “pono pomellato”. In più i gondolieri hanno lo sguardo cattivo e cospiratore dei gabbiani, il che non rende il giro rassicurante come nei film di Woody Allen. Però è un’esperienza da fare, anche solo per salutarsi da gondola a gondola con i turisti stranieri.
Superata la prova gondola e avendo perso una caloria nel frattempo, corriamo ai ripari fermandoci a mangiare a La Bottiglia, un piccolo locale senza pretese dove bere un calice di vino accompagnato da un tagliere di salumi e formaggi.
La serata si conclude nel ristorante dell’hotel, dove non ho alcun ricordo dei piatti mangiati, ma sono certa di aver mangiato bene. E soprattutto bevuto meglio.
Finisce, così, la seconda tappa di quello che non era nostra intenzione far diventare un tour enogastronomico, ma si sa, a noi ce piace da magna’ e beve e nun ce piace da lavora’. Prossima fermata: Tarvisio.